L’ONU SI RIFORMA: LA “RESPONSABILITÀ DI PROTEGGERE”
mercoledì 21 aprile 2010 di CEPRID
di Alberto Cruz *
Il Premio Nobel per la Pace assegnato al presidente degli Stati Uniti è una beffa; dicono che glielo hanno dato per il suo lavoro a favore di un Nuovo Ordine Mondiale e per la sua “scommessa per il multilateralismo”. Ma se c’è qualcuno che veramente si è impegnato per questo Nuovo Ordine Mondiale e per il multilateralismo meritandosi, pertanto, questo premio, d’altra parte non imprescindibile come tutti quelli che assegna qualsiasi istituzione occidentale (fino ad ora solo il ministro vietnamita per le Relazioni Estere Le Duc Tho ha avuto la dignità di rifiutarlo (nel 1973) quando glielo assegnarono ex aequo con Henry Kissinger per aver raggiunto un accordo di pace in Vietnam sebbene la guerra sarebbe continuata per altri due anni), è il nicaraguense Miguel D’Escoto Brockmann, che da poco ha lasciato il suo incarico di presidente dell’Assemblea Generale dell’ONU. Durante il suo mandato l’organismo internazionale ha provato a ripararsi dall’impeto con il quale l’Occidente tutto, l’arrogante autodenominatisi “comunità internazionale”, l’ha assalito a partire dalla guerra contro la Jugoslavia (1999).
Gli ultimi mesi di D’Escoto come presidente della sessione 63 dell’Assemblea Generale dell’ONU passeranno alla storia delle Relazioni Internazionali per aver intrapreso due iniziative che hanno dato fastidio, e molto, all’Occidente. La prima, l’organizzazione di una conferenza sulla crisi finanziaria ed economica mondiale e i suoi impatti sullo sviluppo (New York, 24-26 giugno); la seconda, l’invito rivolto a rilevanti intellettuali come Jean Bricmont, Ngugi wa Thiong’o e Noam Chomsky, tra gli altri, per discutere di fronte e con i sempre più incartapecoriti rappresentanti diplomatici presso l’ONU sulla nuova strategia che l’Occidente vuole imporre nelle relazioni internazionali: la “responsabilità di proteggere” (settembre).
A queste due iniziative i sempre bellicosi e mai troppo ponderati “mezzi di comunicazione” non hanno fatto alcun cenno. E noi, poverini, dipendiamo da loro per sapere che dobbiamo dire, che dobbiamo pensare, come dobbiamo comportarci, come dobbiamo vestirci. Finanche per fare il contrario. Per tanto, su queste due iniziative non avremo nessuna opinione. Un errore, un grossolano errore l’avere come referente questi “mezzi di comunicazione” così vilipesi dai quali però dipendiamo come un tossicodipendente dalla sua dose giornaliera, che ripetiamo continuamente fino a quando non arriva lo tsunami di turno a coglierci impreparati. E ci travolge. Siamo molto bravi nel fare analisi a posteriori su ciò che è già successo e molto meno nell’improntare ipotesi di lavoro a priori su ciò che ancora deve succedere. D’Escoto ha provato a cambiare le cose e malgrado la consapevolezza che la conferenza sulla crisi avrebbe potuto solo avere influenze teoriche perché all’Assemblea Generale dell’ONU è praticamente proibito immischiarsi nella Finanza Internazionale (privilegio esclusivo dell’FMI, della Banca Mondiale e della OMC nonostante l’articolo 13 della Carta delle Nazioni Unite stabilisca che l’Assemblea Generale “darà raccomandazioni con il fine di promuovere la cooperazione internazionale nella sfera economica, sociale, culturale, educativa e sanitaria”, un articolo non applicato negli ultimi trent’anni), ha provato a fare in modo che l’ONU diventasse realmente un foro democratico ed inclusivo. “Non vogliamo che siano solo un G-8 o un G-20 a parlare e decidere, rispetteremo i criteri, li ascolteremo, ma in una reale democrazia la maggioranza è quella che decide, per questo ho iniziato a parlare sul fatto che quella che deve imporsi è la voce del G-192, di tutti i membri dell’ONU…Così che c’è una buona predisposizione all’incontro che è convocato al massimo livello, perché questa battaglia bisogna farla nelle Nazioni Unite, affinché democraticamente si possa partecipare nella progettazione della nuova architettura finanziaria, economica, monetaria e commerciale mondiale”, dichiarava D’Escoto al quotidiano cubano “Granma” anticipando la realizzazione di questa conferenza.
Non è il momento di parlare del contenuto della stessa in cui ha avuto un ruolo da protagonista Joseph Stiglitz, per citare solo uno dei partecipanti, quanto piuttosto di quella che suggellò con una medaglia d’oro la sua presidenza: quella relativa alla “responsabilità di proteggere”, un concetto adottato in un vertice mondiale del 2005 e che viene a sostituire, con un altro nome ma con le stesse premesse, il “diritto d’ingerenza” o come lo si è eufemisticamente denominato, con una espressione molto meno aggressiva, “diritto di intervento umanitario”.
Oggi “umanitaria” è la parola di moda anche per riferirsi a guerre di occupazione come quelle dell’Iraq e dell’Afghanistan ed è da supporre che le pallottole e le bombe sono totalmente umanitarie dato che accelerano il processo di morte: invece di morire di fame, che è una morte lenta, è meglio morire con un proiettile o maciullato da una bomba, che ti garantisce una morte rapida se hai la fortuna che ti prenda in pieno.
D’Escoto, che ha osato alzare la voce contro la carneficina che Israele portò a termine nella Striscia di Gaza praticamente all’inizio del suo mandato criticando l’inazione dell’ONU, ha voluto congedarsi alla grande, cosciente che l’incapacità dell’ONU di affrontare i problemi fondamentali del sistema economico, la estrema povertà, e la disuguaglianza sulle quali si basa il sistema capitalista attuale è ciò che ha portato l’organismo internazionale ad avviare “misure palliative” (espressione dello stesso D’Escoto) come gli Obiettivi dello Sviluppo del Millennio o, come programmano ora i paesi occidentali, “l’applicazione urgente del concetto della responsabilità di proteggere”.
Sarebbe a dire, che in assenza di una volontà politica – nonostante la solita solfa del G-8, G-20, FMI, BM,OMC – per far fronte alle gravi ingiustizie e disuguaglianze esistenti nel mondo, è molto più conveniente per i paesi capitalisti (“comunità internazionale” nella neolingua orwelliana) ricorrere alla “responsabilità di proteggere” che garantire in maniera efficace il diritto alla salute, all’istruzione ed alla non discriminazione razziale o etnica, per citare solo alcuni casi, nei paesi del Sud. “Responsabilità di proteggere” per non affrontare così una riforma integrale dell’ONU – cominciando dal Consiglio di Sicurezza e del suo obsoleto ed antidemocratico diritto di veto – per superare le limitazioni derivate dai loro metodi restrittivi (perché l’intervento in Kosovo e non in Israele dopo la strage di Gaza?) e del potere decisionale concentrato in poche mani.
Il mandato di D’Escoto come presidente della sessione 63 della Assemblea generale dell’ONU si è contraddistinto per una coerenza poco frequente nei diplomatici. Ha rilasciato praticamente la stessa dichiarazione, e con le stesse parole, quando prese possesso della presidenza e quando fece il suo discorso di commiato: “Solo un’Assemblea Generale che esercita energicamente la formulazione di politiche di liberazione e decisionali sarà capace di rafforzare il multilateralismo come la migliore opzione per le relazioni tra Stati”.
Un concetto coloniale
La “responsabilità di proteggere” è presentata come una nuova regola nelle relazioni internazionali, un nuovo punto di riferimento che permette l’uso della forza per ragioni umanitarie perché la dottrina dell’”intervento umanitario”, vigente fino ad oggi, è rifiutata en toto dai paesi del Sud.
Il cosiddetto “diritto di intervento umanitario” è un concetto sviluppato dall’Occidente dopo il trionfo dei movimenti di liberazione nel Terzo Mondo e la sconfitta delle potenze coloniali specialmente in Indocina, e più concretamente, in Vietnam. I nuovi paesi, liberati dell’occupazione coloniale, si misuravano con situazioni catastrofiche in tutti i sensi, nella maggior parte dei casi come conseguenza dell’epoca coloniale, e l’Occidente ritenne che il “diritto di intervento umanitario” sarebbe stata una buona formula per mantenere sotto controllo i suoi antichi domini coloniali, in special modo quando considerò che la nuova normativa dell’ONU in materia di diritti umani, quelli collettivi, attaccava direttamente i suoi interessi nell’approvare la “Dichiarazione sulla concessione di indipendenza a paesi e popoli coloniali” nella quali si enuncia testualmente: “la sottomissione dei popoli ad un soggiogamento, dominazione e sfruttamento costituisce una violazione dei diritti fondamentali, è contraria alla Carta delle Nazioni Unite e compromette la causa della pace e della cooperazione internazionale”.
Per questa ragione, praticamente la totalità dei paesi del Sud si è opposta all’”intervento umanitario”, in forme diverse, nelle ultime tre decadi e lo sforzo finale cominciò a concretizzarsi in un vertice avuto luogo nel 2000 a L’Avana (Cuba), nel quale si contrappose il principio di sovranità nazionale a quello di “intervento umanitario”. Il caso della guerra contro la Jugoslavia era ancora presente nelle menti dei partecipanti.
A L’Avana si decise di ribadire in forma ufficiale il rifiuto del “diritto di intervento umanitario” in una riunione del Movimento dei Paesi Non Allineati. Questo vertice ebbe luogo a Kuala Lumpur (Malesia) nel febbraio del 2003 quando si profilava all’orizzonte un’altra guerra, questa volta contro l’Iraq. È risaputo che gli USA così come la Gran Bretagna insieme ad altri paesi, come la Spagna, non prestarono attenzione a questa risoluzione e attaccarono ed invasero l’Iraq violando il diritto internazionale rifugiandosi nella stessa espressione cinica che avevano utilizzato alcuni anni prima, nel 1999, durante la guerra contro la Jugoslavia: “è un attacco illegale, ma legittimo”. Allora usarono il pretesto dei massacri etnici, ora quello delle armi di distruzione di massa.
La formula “illegale ma legittimo” per invadere un paese o rovesciare un governo ha un padre, l’ex primo ministro britannico Tony Blair, oggi sfavillante responsabile della UE per il Medio Oriente. Questo personaggio, che dovrebbe essere denunciato come criminale di guerra insieme ad alcuni dei suoi soci tanto per l’aggressione alla Jugoslavia come per le successive all’Afghanistan ed Iraq, si spinse ancora oltre nel giustificare gli attacchi della NATO in terra jugoslava affermando che la guerra non si faceva per un territorio, ma per dei “valori”.
E in questo consiste il quid della questione, anche ora. L’Occidente, convinto che i suoi valori sono l’immagine superiore ed immodificabile del mondo, sta cercando di ottenere che la “responsabilità di proteggere” sia tutelata dalla Carta delle Nazioni Unite, cosicché possa risultare accettabile per l’opinione pubblica, sottolineando che l’opzione militare debba ritenersi come extrema ratio e deve essere approvata dal Consiglio di Sicurezza. Vale a dire che sia sotto il controllo dei soliti di sempre. Non bisogna dimenticare che nei mesi successivi alle invasioni dell’Afghanistan (2001) ed Iraq (2003) i differenti organismi dell’ONU, iniziando dal Consiglio di Sicurezza e continuando con la Segreteria Generale, cominciarono a legittimare post facto suddette invasioni, ed in questo modo, l’ONU non procedeva più come una organizzazione internazionale imparziale, neutrale ed indipendente, come si stabilisce nella propria Carta dei principi.
Da qui l’importanza della presidenza di D’Escoto nell’Assemblea Generale e del nuovo tratto che diede all’organizzazione con le sue iniziative.
La sovranità nazionale
L’aspetto più sorprendente però, rispetto alla “responsabilità di proteggere” è che la cosiddetta “società civile”, le ONG e le altre mascherate dei paesi capitalisti stanno appoggiando in maniera entusiastica questa pretesa nuova dottrina nelle relazioni internazionali. Lo giustificano dicendo che il massacro in Ruanda negli anni 90 non si è potuto evitare per il rispetto della sovranità nazionale, battaglia questa del MNOAL.
Tuttavia, non sono capaci di utilizzare lo stesso argomento riferendosi alla situazione della Palestina Occupata. Visto che criticano i difensori della priorità del concetto di “sovranità nazionale” su quello della “responsabilità di proteggere” avrebbero dovuto mettersi in prima fila nel difendere questa dottrina nel caso della Palestina, che non è un paese e che non ha una “sovranità nazionale” da difendere giacché gli si nega il suo diritto ad essere uno Stato. O di argomentare che se gli USA ed i suoi alleati della NATO attaccarono la Jugoslavia ed invasero l’Iraq senza che lo impedisse il diritto internazionale lo stesso potevano averlo fatto in Ruanda ed Israele prima del massacro di Gaza posto che, in fin dei conti, i palestinesi sono protetti dalla Convenzione di Ginevra e fanno parte tanto dell’impalcatura mondiale delle relazioni internazionali come di quello dei diritti umani.
Dopodiché la ragione per intervenire, sia sotto il vecchio ombrello dell’”intervento umanitario” o del nuovo “responsabilità di proteggere”, è come i paesi capitalisti (“comunità internazionale” nella neolingua orwelliana) valutano le tragedie e se queste si hanno in un paese amico e nemico in virtù di come sia considerato il suo governo. Si veda, di nuovo, quello che è successo in Kosovo ed il modo con cui si trattò il caso – difeso ad oltranza dall’Occidente en toto – e quello che è successo in Ossezia dopo l’intervento russo – criticato unanimemente dall’Occidente – nonostante che in entrambi i casi la giustificazione per “intervenire” per gli uni e per gli altri fosse la stessa. La differenza è che il governo jugoslavo non era amico dell’Occidente mentre quello dell’Ossezia sì.
Nel dibattito è intervenuto, e non poteva essere altrimenti, l’attuale segretario dell’ONU, Ban Ki-Moon. Di fronte al timore che l’iniziativa di Miguel D’Escoto si concretizzi in futuro, dalla segretaria generale dell’ONU provarono ad anticipare ed annullare la conferenza rilanciando un documento nel quale appaiono i tre pilastri sui quali poggerebbe la “responsabilità di proteggere” (R2P nel linguaggio tecnico anglosassone) e che distinguerebbe questa dottrina dell’”intervento umanitario”: la responsabilità degli stati per evitare i crimini contro il proprio popolo, la responsabilità della comunità internazionale per intercettare ed evitare situazioni di questi tipo e la responsabilità di applicare differenti gradi di coercizione contro i responsabili arrivando, in caso necessario, fino all’intervento militare. E per mitigare la diffidenza dei critici, specialmente dei paesi che compongono il MNOAL, Ban Ki-Moon aggiungeva nella sua proposta che oltre al CS dell’ONU avrebbe un ruolo in questa ultima e drastica decisione l’Assemblea Generale, anche senza specificare che tipo di ruolo.
Questo fatto non è di poco conto, posto che gli USA disprezzano il ruolo dell’Assemblea Generale da quando, a metà degli anni 80 del secolo scorso, i palestinesi utilizzarono questo mezzo per eludere il veto sistematico che gli USA mettevano su qualsiasi condanna ad Israele. Si crea quindi un conflitto di competenze importante che solo si risolverà con la riforma del CS e con l’assegnare più potere all’Assemblea Generale, qualcosa che non sta nella mente di Ban Ki-Moon né, come è ovvio, nei membri permanenti del CS.
Documento in questione a parte però, Ban Ki-Moon ha chiaro da che parte sta e chiarisce che sebbene è accettabile il principio di “sovranità nazionale” questa deve essere “responsabile”. Si suppone che si stia riferendo a tutti i paesi che sono membri dell’ONU, pertanto la prima cosa che Ban Ki-Moon dovrebbe fare sarebbe garantire che l’Occidente rispetti il diritto internazionale, cominciando dalla stessa ONU così come sta rendendo pubblica ora la frode elettorale in Afghanistan – che è stata ritenuta “massiccia o “generale” e quantificata dai più conservatori “in un 30%” – e come questa frode è stata coperta dai suoi rappresentanti fino a quando è stato impossibile nasconderlo per più tempo.
E dovrebbe continuare con Israele obbligandolo – “responsabilità di proteggere” il popolo palestinese – a rispettare le risoluzioni che invece non rispetta da più di 40 anni. E poi con gli Stati Uniti obbligandoli – “responsabilità di proteggere” il popolo cubano – a togliere l’embargo al quale è sottomessa la isola da ormai quasi 50 anni. Ed ancora con la NATO, con la quale lo stesso Ban Ki-Moon (nel settembre del 2008) è arrivato ad un accordo di collaborazione senza consultare i membri dell’ONU, come denunciarono allora tanti alti funzionari della stessa ONU come la Russia e nel quale si dichiara che la “cooperazione (tra la NATO e l’ONU) continuerà contribuendo in maniera significativa a farsi carico delle minacce e delle sfide che affronta la comunità internazionale ed alle quali è chiamata a rispondere”.
È ora d’intervenire nel dibattito aperto con grande coraggio da Miguel D’Escoto e cominciare a prendere posizione. Nessun sistema di relazioni internazionali e/o di giustizia, inclusa la Corte Penale Internazionale (i 14 ordini di cattura emessi in questo anno sono contro africani della Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centroafricana, Uganda e Sudan senza che tra questi ci siano gli alleati dell’Occidente come Paul Kagame o Yoweri Museveni, presidenti attuali di Ruanda ed Uganda, rispettivamente, responsabili di genocidi), può funzionare senza la fiducia e l’uguaglianza di trattamento.
Se si vuole una nuova era nelle relazioni internazionali bisogna sostenere un mondo veramente democratico e questo non lo si raggiunge con premi come il Nobel per la Pace al presidente degli Stati Uniti. Basterebbe solo applicare i principi del I Capitolo della Carta dell’ONU: “tutti gli stati membri dovranno rispettare il principio dell’uguaglianza sovrana, risolveranno le loro controverse internazionali con mezzi pacifici e si asterranno dalla minaccia e dall’uso della forza contro l’integrità territoriale e indipendenza politica di qualsiasi Stato”.
È qualcosa che D’Escoto disse nel suo discorso di saluto: “Io sono tra quelli che crede che l’ONU è potenzialmente un’organizzazione indispensabile per aiutare l’Umanità a sopravvivere all’insieme di crisi convergenti che minacciano di portarla alla estinzione. Il problema principale è, senza dubbio, che non tutti i suoi fondatori realmente credevano, né credono ancora oggi, nella visione o nei principi espliciti e impliciti nella sua Carta costituente. Credo che non sia scorretto segnalare ciò che tutto il mondo sa e questo, tra molte altre verità, è il fatto che tra i nostri più poderosi ed influenti Stati Membri ci sono quelli, in definitiva, che non credono nella supremazia del diritto nelle relazioni internazionali e considerano, piuttosto, che attaccare le norme del diritto alle quali abbiamo formalmente aderito firmando la Carta, è qualcosa che riguarda solo i paesi deboli. Con questo livello di impegno così basso, non ci dovrebbe sorprendere che le Nazioni Unite non siano riuscite a raggiungere i principali obiettivi per i quali fu creata. Alcuni Stati Membri pensano che possono comportarsi secondo la legge della giungla e difendono il diritto dei più forti a fare ciò che vogliono con totale ed assoluta impunità, senza dover rendere conto a nessuno. Inoltre, considerano giusto inveire contro il multilateralismo e proclamano le bontà dell’unilateralismo nello stesso momento in cui pontificano, senza nessun impaccio, dai loro privilegiati scranni nel Consiglio di Sicurezza, sulla necessità che gli Stati Membri si comportino secondo i dettami della Carta, o che gli si applichino sanzioni (in maniera selettiva, naturalmente) per non averlo fatto. Quello dell’uguaglianza sovrana di tutti gli Stati Membri e dell’obbligo di impedire le guerre sono, per loro, piccoli dettagli che non meritano di essere presi molto sul serio”.
La battaglia contro la “responsabilità di proteggere” non è un dettaglio. Al suo interno i popoli si giocano il loro futuro. Non bisogna spingere la riforma dell’ONU, posto che come disse molto bene D’Escoto, “sta già oltre le riforme e le rattoppature” e ciò di cui abbiamo bisogno è “reinventarla”. D’Escoto citava il tempus fugit, come dicevano i latini, il tempo vola e con lui se ne vanno anche “le opportunità di fare quello che dobbiamo fare per garantire un futuro degno per le generazioni future”. Amen.