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La Francia, la Cina e il neocolonialismo occidentale in Africa

lunedì 22 febbraio 2021 di CEPRID

Alberto Cruz

Tradotto da Andrea Grillo per Codice Rosso

Con quasi un quarto di secolo XXI alle spalle ci sono già chiare un paio di cose: l’egemonia occidentale sta scomparendo a velocità vertiginosa mentre l’Asia è il continente intorno al quale, senza alcuna discussione, gira tutto questo secolo. È la fine dell’onnipotenza, un processo che sta risultando molto doloroso per i Paesi che hanno controllato il mondo per 500 anni, da quando già nel secolo XVI cominciarono a fissare norme e regolamenti che imponevano con le buone o con le cattive.

La crisi del 2008 aveva già fatto vedere come il sole sorgeva a est e calava ad ovest. È stata la visualizzazione del fatto che cominciava un mondo multipolare dove l’Occidente si vedeva obbligato a ritirarsi mentre ad est emergevano con tutta la loro forza sia la Russia che soprattutto la Cina. La pandemia del COVID-19 non ha fatto altro che estendere dappertutto questa realtà in modo indiscutibile. Perché il coronavirus ha messo a nudo l’Occidente, ha messo in rilievo la sua fragilità e vulnerabilità e ha mostrato la forza economica e politica della Cina. Il dato, che è stato appena reso noto, che i Paesi dell’Associazione degli Stati del Sudest asiatico (ASEAN, che sono tutti quelli inclusi nella nuova Associazione Economica Integrale Regionale) sono diventati il primo partner commerciale della Cina in quest’anno della pandemia, superando una sempre più moribonda Unione Europea, è stato il fattore determinante. Allo stesso tempo, è la Cina che ha soppiantato gli USA come primo partner commerciale dell’Unione Europea.

Senza di questa i Paesi asiatici non avrebbero terminato quello che avevano cominciato poco dopo la crisi del 2008 e non si sarebbe dato origine all’Associazione Economica Integrale Regionale (Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Birmania, Cambogia, Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda) costruendo l’accordo commerciale più grande del mondo, con Paesi che inglobano il 31% della popolazione mondiale, che rappresentano quasi la stessa proporzione del PIL mondiale e una percentuale di poco inferiore del commercio mondiale.

L’unico Paese asiatico che rimane fuori è l’India (oltre alla Corea del Nord) e lo fa dopo la deriva verso gli USA in questa luna di miele tra Modi e Trump iniziata un paio di anni fa. Ciò nonostante, se Trump lascia la presidenza è molto probabile che l’India riconsideri la sua posizione per non rimanere fuori da un mercato così redditizio. Soprattutto perché ciò che propugna questo nuovo accordo economico è l’eliminazione delle barriere daziarie e non daziarie tra i Paesi membri e si stima già che questo, di per sé, aumenterà il PIL di tutti i Paesi di un minimo del 2% all’anno. È un accordo nel quale tutti i Paesi asiatici vincono (e in cui l’Occidente perde).

Che i Paesi asiatici, senza eccezione, abbiano saputo combattere molto meglio la pandemia degli occidentali e ne siano usciti non solo più rapidamente, ma con maggior forza, ormai non è un mistero per nessuno. Così si deve interpretare il fatto che Paesi così lontani politicamente come la Cina e il Giappone, per esempio, facciano parte dell’AEIR.

Ma l’Occidente cerca di resuscitare la sua egemonia, qualcosa di simile all’ultimo respiro del moribondo. Da una parte, imponendo sanzioni a tutto ciò che si muove (sanzioni che sono illegali secondo il diritto internazionale se non sono imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU) e mostrando così i suoi famosi “valori democratici”. Dall’altra, ricorrendo al neocolonialismo classico cercando di resuscitare vecchie glorie passate del colonialismo in senso stretto. L’Europa è esperta in questo. Non deve stupire allora che la Gran Bretagna della Brexit cerchi di rafforzare la sua marina da guerra per rivivere la sua epoca coloniale (Johnson ha detto che le navi britanniche saranno “sempre presenti” nei mari dell’Asia e anche nel Mar Nero) o che la Francia ricorra alla sua tradizionale zona di dominio coloniale: l’Africa.

Il secondo asse

Un poco più di mezzo secolo dopo il culmine dei processi di decolonizzazione formale dei Paesi africani, questo continente è l’altro asse dove si sta giocando l’equilibrio geopolitico del mondo postpandemico. Ed è qui che la moribonda Unione Europea si sta afferrando alla vita tentando di conservare qualche tipo di potere e autonomia di fronte a vecchi e nuovi rivali: USA, Cina, Turchia e i Paesi del Golfo. La punta di lancia è la Francia, il potere coloniale per eccellenza nel continente africano. Già nel mese di luglio le vecchie colonie francesi si sono astenute dall’appoggiare l’iniziativa dell’Organizzazione per l’Unità Africana chiedendo aiuto alla Cina per fermare la pandemia. Di fronte ai disperati appelli dei Paesi africani per aiuti economici e sanitari, la UE ha detto che non poteva fare di più e che quello che dovevano fare questi Paesi era di “completare i programmi in corso”. Tradotto: l’Africa si deve accontentare di quello che ha.

Allora è apparsa la Francia per evitare che le sue ex colonie virassero verso la Cina e ha offerto 1 miliardo e 200 milioni di euro tramite l’Agenzia Francese per lo Sviluppo a tutte le sue ex colonie (un totale di 23 nel continente africano), specialmente Senegal, Burkina Faso, Guinea e Madagascar. Le parole di Macron sono state molto chiare: «questo ha una prospettiva strategica, il gioco non è solo sviluppare una contro-narrativa [alla China] ma di poter confidare in un equilibrio [economico] significativo». Ma dietro la dichiarazione esplicita anti-cinese, la realtà: di questo importo solo 150 milioni di euro erano una donazione, il resto doveva essere restituito con gli interessi e si obbligavano i Paesi beneficiari a destinare 500 milioni di euro al “trattamento di diverse malattie infettive». Dare con una mano, togliere con l’altra e farsi la foto sorridendo con la questione sanitaria. La Francia coloniale era tornata.

La Francia già da anni ha una presenza militare significativa nel Sahel (undici Paesi) coperta sotto la “lotta contro il jihadismo” anche se approfittando del declino occidentale cerca di “estendersi” ora a territori che furono di altre metropoli coloniali. Per esempio, in Mozambico, con importanti riserve di gas (si dice che siano le none del mondo) e dove recentemente è apparsa una versione del cosiddetto Stato Islamico. O, per esempio, in Nigeria, importante Paese petrolifero, dove ha appena annunciato un accordo per costruire una raffineria di petrolio. Il Mozambico fu colonia portoghese, la Nigeria britannica.

Si sta cercando di controbilanciare questi movimenti neocoloniali con misure che appaiano una ritirata dell’influenza francese nelle sue ex colonie, come l’approvazione di un progetto di legge che sostituisce definitivamente il franco della comunità finanziaria dell’Africa (CFA), la moneta utilizzata in tutti questi Paesi di influenza francese e che non solo era garantita dalla Francia ma che obbligava questi Paesi africani a tenere la metà delle loro riserve monetarie nel Banco di Francia.

Ma ciò che si dà con una mano si toglie con l’altra, perché ci sarà una nuova moneta, denominata eco, che mantiene anch’essa la sua subordinazione alla metropoli avendo una parità fissa con l’euro, e anche in questo caso sarà la Banca di Francia che garantisce la sua convertibilità o meno e si mantiene anche l’obbligo per questi Paesi africani a depositare “almeno” il 50% delle loro riserve in valuta a Parigi. Poi in Francia ci si sorprende che continuino la ribellione e le critiche verso la sua presenza in Africa, come in Mali dove il golpe militare di fine agosto ha messo in rilievo il rifiuto di questo neocolonialismo. Qual’è stata la reazione della Francia? Chiedere la sospensione “immediata” del Mali dall’Organizzazione Mondiale della Francofonia (49 Paesi). Ha fatto la stessa cosa anche l’ Organizzazione per l’Unità Africana, anche se è tornata indietro i primi di ottobre.

Neocolonialismo-jihadismo

La Francia è la punta di diamante di questo tentativo occidentale di continuare ad essere egemonico da qualche parte. È un tentativo di consolidare una suddivisione del mondo in sfere d’influenza, come l’Asia per la Cina, l’America per gli USA e l’Africa per l’Europa. La UE ha destinato in giugno 8 miliardi di euro, rinnovabili ogni quattro anni, fondamentalmente con il proposito di «finanziare operazioni militari in Paesi stranieri». La mano della Francia nelle sue ex colonie è ben visibile ed è sotto la sua influenza che la UE mantiene quattro delle sue cinque missioni militari attuali nel continente africano, anche se invero c’è anche lo scopo di contenere l’immigrazione.

La UE ora non sta più parlando tanto di immigrazione quanto di “lotta contro il jihadismo”. È tipico dell’Occidente accorgersi del calore delle fiamme quando gli arriva il fuoco. In Francia, soprattutto con gli attacchi islamisti. Non c’è alcun dubbio sul fatto che sia stato l’Occidente con la sua alleanza con le petro-monarchie del Golfo che lo ha utilizzato e difeso per raggiungere i suoi obiettivi geopolitici. Il primo successo è stato l’Afghanistan, l’ultimo la Libia. In mezzo troviamo l’appoggio ai jihadisti in Siria, ora quasi sconfitti e sostenuti fondamentalmente dalla Turchia.

Ma è molto diffícile trovare analisi sulla relazione tra gli effetti del neocolonialismo e l’espansione del jihadismo e su come si utilizza questo jihadismo come scusa per proteggere gli interessi economici neocoloniali occidentali. È il caso del Mozambico, dove la Francia preme sulla UE perché argomenta che sono minacciati gli interessi della sua multinazionale Total, il maggior progetto francese nel continente africano. Non è così, perché in questi tre anni da quando esiste il cosiddetto Stato Islamico in Mozambico neanche una volta è stata attaccata la multinazionale. Ma bisogna continuare a sostenerlo perché la gente creda ciò che non è credibile.

In realtà la presenza della UE in Mozambico si spiega formalmente con una petizione del governo mozambicano del mese di settembre quando il cosiddetto Stato Islamico (che in Mozambico agisce come Ansar al-Sunna) ha cominciato a operare nella provincia di Cabo Delgado, dove sono le principali riserve di gas e di rubini e dove si trova la multinazionale francese. Di conseguenza la sequenza cronologica è più che curiosa ed è poco probabile che sia casuale. Perché un po’ più tardi, ad ottobre, la UE rispose annunciando il suo “impegno di fornire assistenza di sicurezza contro l’ISIS” anche se, questo sì, aggiungendo il nuovo mantra moderno: “formazione e logistica tecnica in varie aree specifiche [che non vengono citate], quali l’assistenza per affrontare sfíde umanitarie, inclusi i servizi medici”.

Frenare la Cina (e la Turchia)

I movimenti francesi (e della UE) hanno molto a che vedere con quel tentativo di “contro-narrativa” alla Cina nel continente africano. Le tre grandi compagnie cinesi di petrolio e gas (tutte sotto il controllo dello Stato) sono molto radicate e dall’Africa arriva quasi il 25% di tutta l’importazione di queste materie prime. E arriva, principalmente, da quattro Paesi: Nigeria, Angola, Uganda e Mozambico. Come si diceva, in Nigeria e Mozambico è appena entrata anche la Francia.

La lotta è sorda, anche se la Francia (e la UE) sono in chiaro svantaggio. Non hanno né i soldi né il prestigio della Cina, accresciuto non solo dall’aiuto prestato con la pandemia ma anche dall’annuncio di offrire 55 miliardi di euro in finanziamenti sotto forma di prestiti senza interessi ai Paesi africani (3 settembre) e l’annullamento del debito ai Paesi più poveri. E, soprattutto, la Cina si è attenuta ai principi di non interferire con i Paesi africani nell’esplorazione di vie di sviluppoCHe si adattino alle sue condizioni nazionali, non interferire negli affari interni, non imporre nessuna condizione politica per aiutare l’Africa e non cercare benefici politici privati negli investimenti e nei finanziamenti in Africa. Per questo, ora tutti i riferimenti dell’UE verso l’Africa partono dal “si cerca di lasciarsi indietro il paternalismo”. Gli sforzi della Francia e della UE si accentrano sul cancellare l’impressione che il loro “nuovo comportamento” sia poco più che un cambiamento di nome alle cose.

Ma non c’è solo la Cina, c’è anche la Turchia. La Francia ha cercato di contrastare l’appoggio attivo turco all’Azerbaigian nella guerra del Nagorno-Karabakh con l’annuncio, non messo in pratica, del Senato francese di riconoscere la repubblica dell’Artsakh (nome con il quale gli independentisti si riferiscono al Nagorno-Karabakh) come Paese indipendente. È un’altra dimostrazione dello scontro quasi storico che continua tra i due Paesi, con aspre critiche anche personali tra Macron ed Erdogan che hanno portato al ritiro dell’ambasciatore turco da Parigi. Ma prima del Nagorno-Karabakh c’è la Libia, dove la Francia e la Turchia sono su fronti opposti. Qui la Francia ha un alleato chiaro: l’Egitto. I francesi e gli egiziani hanno lo stesso interesse, “evitare l’espansionismo” turco. Per questo, e sotto la copertura della “lotta contro il jihadismo”, vale tutto.   Alberto Cruz è giornalista, politologo e scrittore. Il suo nuovo libro è “Las brujas de la noche. El 46 Regimiento “Taman” de aviadoras soviéticas en la II Guerra Mundial”, edito da La Caída con la collaborazione del CEPRID e che è già alla terza edizione.


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