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L’attenzione è sulla Libia, l’importanza geostrategica in Bahrein

giovedì 24 marzo 2011 di CEPRID

Ancora una volta facendo il gioco della borghesia: se Gheddafi è buono, se è cattivo, se ormai non controlla il paese, se bisogna occupare il paese, se lo si appoggia dall’America Latina, se bisogna criticarlo…

Di Alberto Cruz

CEPRID

Con un’abilità sorprendente, ha offuscato le rivolte che stanno avvenendo nel mondo arabo: in Egitto e in Tunisia la classe media che ha spinto alle rivolte, con l’appoggio dell’Esercito, non esita ad attaccare chi vuole andare oltre le mere riforme cosmetiche perché tutto continui come prima e loro abbiano la loro parte di potere per evitare il loro progressivo impoverimento; in Marocco e in Giordania continuano le mobilitazioni, con critiche alle rispettive monarchie (qualcosa di nuovo) ma sono diventate inesistenti. Solo alcune nel groviglio di cronache dalle “zone liberate” degli “inviati speciali” in Libia. Ma non è qui che si sta giocando il futuro del mondo arabo così come oggi lo conosciamo, ma in Barhein, la miccia che può infiammare sommosse in tutto il Golfo Persico.

L’importanza geostrategica di quanto sta accadendo in questo piccolo paese è di tale importanza che se trionfa la rivolta in atto colpirà dal Kuwait e all’Arabia Saudita. Nel primo paese sono già iniziate le manifestazioni. Nei tre paesi sono presenti gli sciiti, maggioranza assoluta come popolazione (70%) del Bahrein e minoranze significative negli altri due (circa un 30% nel Kuwait e poco meno del 20% in Arabia, ma in questo paese sono presenti nella zona più ricca di petrolio- da lì fuoriesce il 10% del petrolio che consuma giornalmente il mondo- ed è anche molto vicina al Bahrain). Per gli anni, sono stati gli sciiti ad essere emarginati dalla politica e dall’economia  e guardati come una specie di “quinta colonna” della rivoluzione islamica iniziata in Iran nel 1979. Neanche con la timida riforma costituzionale del 2001 e la rinascita del Parlamento, gli sciiti del Bahrein sono sfuggiti all’esclusione, anzi è stato impedito loro, con arguzie legali, di stabilire una maggioranza politica, quindi il controllo si è mantenuto per anni nelle mani dei sunniti. E’ stato in realtà una farsa che consolidava costituzionalmente il potere nelle mani dell’élites sunnite dato che era compito della monarchia nominare un consiglio consultivo che potesse bloccare i canditati elettorali e sono stati manipolati i distretti elettorali fino a ridurre al minimo la rappresentazione sciita nel Parlamento. I partiti non sono legali, si possono presentare solo alle elezioni come “società politiche”.

Se c’è preoccupazione in Occidente per il petrolio, immaginiamo quello che succederà con un cambiamento nella correlazione di forze nel “granaio nero” del Golfo. Per non parlare di due cose:  innanzitutto, del penoso luogo al quale resterà relegato il dispiegamento militare statunitense nella zona, dove non solo ha la sede centrale della V Flotta (Bahrein), da dove arrivarono i bombardieri e missili che hanno colpito Bagdad prima dell’invasione del 2003, ma anche il comando militare (in Kuwait) dell’esercito di occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan; la seconda, il rafforzamento dell’influenza dell’Iran nella zona e, per estensione, in tutto il Medio Oriente.

Questo è il tallone di Achille della strategia che sta adottando l’Amministrazione Obama con le rivolte nel mondo arabo: sostenerle perché non sfuggano al controllo e possano essere utilizzate, come è accaduto con i presidenti deposti, nella loro campagna contro l’Iran. Pertanto i richiami alla “modernizzazione” nel rispondere ai manifestanti, per "evitare la violenza”, che, nel caso del Bahrein, ha fatto sì che immediatamente le forze militari (esercito e polizia) della monarchia smettessero di massacrare quei pochi che aveva espulso a sangue e fuoco dalla Piazza della Perla (chiamata dai suoi manifestanti la “piazza dei martiri” in omaggio ai morti causati dalla repressione). Non c’è bisogno di ricordare l’intervento del capo dell’Esercito fatto in tv  per garantire che sarebbe stata usata tutta la forza necessaria per evitare “i disordini” dopo aver messo in strada i carri armati per reprime la rivolta che era iniziata da tre giorni. Il Bahrein è l’unico paese arabo in crisi che è stato visitato due volte da alti funzionari, politici e militari statunitensi in questi giorni. L’ultimo, per ora, il Segretario di Stato per gli Affari nel Vicino Oriente, Jeffrey Feltman.

Sia gli Stati Uniti che l’Arabia Saudita sentono un brivido che attraversa la schiena ed entrambi sono in una posizione difficile. Non possono incitare alla repressione e neanche invadere il paese, come si sta pianificando riguardo la Libia. Questa semplice idea scatenerebbe la furia tra gli sciiti fino ad estremi incontrollabili. Certamente, i cittadini del Bahrein sono stati molto attenti a non ostentare la loro fede religiosa nelle proteste. Così come in Egitto, l’uso della bandiera nazionale evidenzia un sentimento verso il paese non verso una fede religiosa che riduce il margine di manovra per i sostenitori delle “frontiere di sangue” e il conflitto religioso fra sunniti e sciiti. Nulla è più lontano dalla realtà di un tentativo da parte di manifestanti di creare una sorta di wilayat al-faqih, Stato sciita, dato che nel Bahrein c’è un’importante organizzazione di sinistra, Waad, composta quasi interamente da sciiti. Pertanto, non ha senso far caso alle affermazioni come quelle di Mike Mullen, Capo di Stato Maggiore Congiunto delle Forze Armate degli USA quando accusa, senza nominarlo, l’Iran di “incitare i disordini in Bahrein”.

Arabia Saudita sotto scacco

Questa è stata la motivazione ufficiale della monarchia del Bahrein negli ultimi anni, fino al punto di chiedere agli USA il bombardamento dell’Iran.La monarchia ha cercato di contrastare la rivolta popolare convocando i suoi sostenitori (21 febbraio) nella moschea sunnita Al-Khalifa, e torna sul tavolo la questione del settarismo che nutre questo regime. Inoltre, se in Libia si parla di mercenari che sostengono Gheddafi, lo stesso bisogna dire del Bahrein, con mercenari salafisti- molti di loro sauditi- utilizzati dal Ministero degli Interni per reprimere le proteste nei primi giorni. Ci sono tribù che hanno doppia nazionalità, bahrein-saudita ed è su di loro che è atT creata la sicurezza del regime monarchico fino ad ora.

Gli interessi sauditi in Bahrein sono storici, fino al punto di aver costruito un ponte che unisce i due paesi (il Bahrein è un’isola) e attraverso il quale ogni fine settimana si muovono migliaia di uomini d’affari sauditi per sfogarsi nel “liberale” (rispetto all’Arabia Saudita) Bahrein. Ma questo ponte- che è stato iniziato nel 1981, due anni dopo la vittoria della rivoluzione islamica dell’Iran- non ha una funzione ludica ma di controllo militare. Ha larghezza sufficiente perché in poco tempo un’intera divisione meccanizzata lo possa attraversare in poco tempo per rafforzare l’Esercito del Bahrein in caso di bisogno. È stato fatto nel 1990, quando un’ondata di attentati ha colpito il centro commerciale e finanziario di Manama, la capitale.

Quindi, non è un’ipotesi stravagante quella dell’intervento saudita se le manifestazioni acquistano un carattere drastico. Se con le mobilitazioni in Egitto le borse saudite sono crollate di circa il 6% al giorno, una tale crisi in Bahrein sarebbe devastante per l’economia di un paese ricco, che si trova in una paralisi politica per la una gerontocrazia malata, in pieno processo di successione, e la mancanza di risposta a ciò che sta succedendo nella zona che si traduce, senza concessioni, in una progressiva perdita della sua influenza. E l’Arabia Saudita è il pezzo grosso in questa partita di scacchi che si sta giocando: l’equivalente di scacco matto al re. Con l’alfiere giordano annullato, la dama egiziana minacciata e con i suoi movimenti ristretti alle caselle vicine, la perdita della torre Bahrein implica lo scacco matto al re saudita.

Al momento, ed in attesa di vedere come si evolvono le proteste, sia gli USA che l’Arabia Saudita hanno incoraggiato la monarchia del Bahrein a fare concessioni, modeste, ma concessioni alla maggior parte della sua popolazione come la liberazione di alcuni prigionieri politici e la nomina di un principe ereditario per negoziare con i manifestanti, allo stesso tempo c’è stato il cambiamento di cinque ministri (Casa, Lavoro, Salute, Elettricità e Acqua, cioè tutti i ministeri sociali, che sottolinea l’impoverimento nel quale vive la la maggioranza della popolazione) ed è stato ridotto di un 25% il tasso d’interesse sui mutui per la casa.

Insufficienti per le richieste sciite, dato che si sta chiedendo né più né meno la sparizione della monarchia.

Non ci riusciranno a meno che non aumenti  la radicalizzazione delle loro azioni- e domenica 27 febbraio è iniziato un percorso in questa direzione con il blocco della sede del Governo in protesta per una riunione del Parlamento che considerano illegale dopo il ritiro del blocco parlamentare sciita non c’è quorum sufficiente per nessun dibattito o riunione, mentre il governo ha rafforzato la polizia di sicurezza delle ambasciate dei paesi del Golfo,- ma se si otterranno più concessioni politiche di quelle che vorrebbero sia la monarchia che i loro sponsor sauditi e statunitensi. Comunque questo già sarà visto come un trionfo che incoraggerà gli sciiti sia in Kuwait che in Arabia con il conseguente calo dell’influenza politica degli USA e del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar).

Il fatto che il 17 febbraio, un giorno dopo l’uccisione dei manifestanti, i ministri degli Affari Esteri del CCG si riunissero a Manama lascia ben chiaro che il regime del Bahrein non cadrà, essendo tanto alta la percentuale di popolazione sciita. Per loro, questo sarebbe come dar per perso il Golfo e lasciarlo nelle mani dell’Iran in momenti in cui questo paese festeggia quello che considera “un nuovo risveglio islamico e un Nuovo Medio Oriente” con l’apparizione di nuovi attori meno servili agli interessi occidentali. Da quel momento, la catena Al Jazeera ha cominciato a offrire una copertura più settaria di quello che succede nel Bahrein, in contrapposizione alla sua aperta posizione simpatizzante verso le rivolte di altri paesi arabi. Questo sembra aver aperto una frattura tra i manifestanti del Bahrein, e quelli più moderati di Al-Wefaq (Movimento per l’Accordo Nazionale) scommettendo adesso su una “monarchia costituzionale” tipo quella britannica.

Ma, nel CCG c’è un paese, il Qatar, che dopo la vittoria di Hezbollah contro Israele nella guerra dell’estate 2006 sta giocando duro per diventare un ponte tra loro e l’Iran. Il Qatar può giocare un ruolo geostrategico importante: alla ricerca di un riavvicinamento con l’Iran ed esercitare un’influenza moderatrice tra gli sciiti nel Golfo.

Le forze del “cambiamento” in Libia

In questa convulsa situazione si respira solo l’imperialismo in Libia. Qui  si può affermare apertamente che stanno vincendo le correnti pro-imperialiste. Il cosiddetto Fronte Nazionale per la Salvezza della Libia,  che è considerato l’eroe della ribellione (essendo molto significativo che si sventolasse la bandiera monarchica) è una creazione della CIA e dell’Arabia Saudita negli anni ’70 del secolo scorso e l’Unione Costituzionale della Libia è un’organizzazione monarchica. Entrambe formano parte della cosiddetta Conferenza Nazionale dell’Opposizione Libica.

Questo significa che Gheddafi è "buono" e che è un referente anti-imperialista? In assoluto no. I suoi istrionismi e svarioni pro occidentali sono sufficientemente conosciuti anche adesso che è abbandonato dall’Occidente e trattato come un paria.  Da tempo era stato denunciato dal Fronte della Resistenza (specialmente hezbollah) dentro il mondo arabo per questi fatti e per il suo ruolo nella sparizione di uno dei principali dirigenti sciiti, Musa Sadr, 30 anni fa e del quale adesso si dice potrebbe essere vivo e in un carcere libico.

E’ comprensibile l’appoggio che riceve dall’America Latina, più col cuore che con la testa. Ma se si difende il diritto all’autodeterminazione dei popoli bisognerebbe essere coerenti,  ciò significa che l’atteggiamento è quello di sostenere il diritto del popolo libico a gestire i suoi propri affari, senza ingerenze della NATO o di qualunque altra potenza imperialista.

Il fatto che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU abbia votato all’unanimità una serie di sanzioni e abbia aperto la porta alla Corte Penale Internazionale (sulla quale ci sarebbe molto da dire) non significa molto: la resistenza della Turchia, Russia e Cina ha impedito l’approvazione di  una "no-fly zone" come quelle che servirono come premessa per l’invasione dell’Iraq e che erano state reclamate dalla Conferenza Nazionale dell’Opposizione libica. Ci sarà una caduta del regime ma non subito come gli imperialisti vogliono e, per ora, non sarà possibile un intervento estero per lo meno in forma aperta.

Si, ci sarà il riconoscimento di un “governo provvisorio” tipo quello dellaTunisia o dell’Egitto, cioè, formato da personalità fino ad ora del regime e nel quale avrà spazio la CNOL. E se in questi due paesi si mantiene intatta la linea economica neoliberale sviluppata sia da Ben Ali che da Mubarak, in Libia, che questa linea esiste anche con Gheddafi, è destinata ad accellerarsi. La CNOL già parlava nel 1994 da una privatizzazione completa dell’economia libica.


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